Da tempo provavo un certo disagio di fronte al mio lavoro: ero estraneo al quadro che realizzavo. […] La mia pittura è sempre stata soggettiva, ha sempre cercato uno spazio fatto di memoria e ritrovato sentimento e intuizione. […] Certi elementi figurativi, anche filtrati al massimo o ridotti ad abbreviazioni ideologiche, ora mi apparivano detriti malinconici, familiari come cifre, ma non veri. […] Sentivo il mio lavoro lontano da me perché non mi bastava rappresentare una realtà di fantasia, di sogno o di memoria, ma volevo che quella realtà si identificasse con la pittura e la pittura divenisse la realtà stessa del sentimento, non la sua rappresentazione.1 (Afro a Lionello Venturi, Roma 1957-58)
Questa rara testimonianza autografa di Afro è lo spunto per la presentazione odierna, nella sede dell’Istituto di Cultura Italiano di Londra, dei due Cataloghi ragionati dell’artista.
Una testimonianza così corposa trova una sua giustificazione nella piena volontà di legare questo evento alla mostra curata da Matthew Gale e dal sottoscritto alla Tate Modern e dedicata ad Alberto Burri, Lucio Fontana e Piero Manzoni.
Alla fine della seconda guerra mondiale l’artista, messo di fronte a un nuovo mondo in crescita ed evoluzione deve trovare un suo codice interpretativo che rispetti la nuova realtà e, contemporaneamente, si confronti con ricerche stilistiche ed estetiche che in altri luoghi (vedi l’America) avevano proseguito il loro autonomo percorso.
Raffrontando idealmente i lavori di Afro e di Burri, amicissimi tra loro, ma orientati verso due ricerche diametralmente opposte, possiamo affermare che “il vedere per essenzialmente differente dal “vedere per macchie”, se spesso, e vedremo come, possono sfociare una nell’altra.
La prima è lineare, vede i limiti degli oggetti, la pittorica, perché ha una percezione sfumata della dissolve la continuità dei contorni, conferisce autonomia composizione, alla luce e ai colori.
La prima pone l’accento sulla realtà, la seconda sull’apparenza.
Così in Afro (per Burri sarebbe interessante analizzare l’evoluzione inversa), i cui lavori dapprima caratterizzati scomposizioni cubiste, diventano lentamente ed indissolubilmente macchie indistinte in cui la traccia lineare memoria ha lasciato il posto alla macchia emotiva della memoria.
In questo modo i sentimenti connessi con l’esperienza estetica sono opposti a quelli provati nella vita reale emozioni scaturite funzionano cognitivamente quando, sulla tela (come esperienza limite) sono poste in connessione di loro. Tutto ciò che permane di soggettivo, inventato reale, è dunque un ostacolo che snatura la semplicità sentire, a cui corrisponde il balenare improvviso di una differente con una intensità indescrivibile.
“Le immagini sono un corrispondente poetico della di cui la memoria conserva la parte più essenziale, rifiutando tutto ciò che sia pratica ed esperienza.”2
“Sento che il mistero con cui la mia intera vita sfocia nella pittura può essere inteso all’inverso e permettere alle immagini della pittura di risalire fino alle origini della mia vita.”
“Così non ho paura della parola ‘sogno’, non ho paura della parola ‘lirica’, o della parola ‘emozione’.”3
astratto, di forme, di linea, di emozioni. Il dato reale in questo modo si smaterializza, diventa incorporeo, senza però trasformarsi in qualcosa d’immaginario o d’irreale e lo spazio della pittura diventa lo spazio della dualità, tanto della presenza, quanto dell’assenza.
La figura, e lo vediamo oggi nelle opere in mostra, esemplificativa di un lungo percorso, affiora, galleggia, sprofonda in un perpetuo divenire.
La memoria è dunque solo il punto di partenza che si perde nella costruzione dello spazio pittorico e l’artista è “homo-humanus per eccellenza, perché si attiene a quell’amore che solo assomiglia a ciò che i sapienti antichi chiamavano anima”.4
La mostra di oggi, con la presentazione di due cataloghi, è solo un tassello, un preludio della grande mostra che si terrà nel prossimo settembre, a Livorno, nella prestigiosa sede dei Granai di Villa Mimbelli – Museo Fattori.
L’inizio lo possiamo sicuramente scorgere nell’adesione alla scomposizione cubista che diventa il segnale che la forma ha bisogno di altroper essere definita e che i vincoli semantici devono essere lentamente distrutti.
Molte volte l’incastro cubista di piani ha ancora una funzione di organizzazione dell’immagine, ma ben presto un altro ordine, più personale, subentrerà allo schema prefigurato dove vi è solo osmosi di colore e di segno e la frammentazione è sinonimo di spazialità.
Da essa ho appreso più che da qualunque altra, a cercare dentro di me, dove le immagini sono ancora radicate alle loro origini oscure”.
Una simile definizione, in Afro si concettualizza, chiarendosi lentamente, nel fare pittorico, alla coscienza dell’artista.
[…] Credo che la pittura cominci a sciogliersi in quei nuovi andamenti di modulazione e di timbro che preludono al levarsi di una voce umana, al librarsi di un canto”.6
È come se il Pittore concedesse a se stesso il permesso di essere libero di pensare e di agire, all’interno della superficie pittorica, innestando una corrispondenza tra l’immagine ancestrale ritrovata, la sua raffigurazione e la negazione di ogni contorno.
“Man mano ho accettato che l’immagine pittorica si realizzasse in un suo modo più imprevisto: nel fatto che una forma si dilati in maniera inquietante, che un colore si accenda “fuori misura”, che la materia nasca dai suoi stessi strati di calcolo e di abbandono.”7
Un’Europa ancora alla ricerca di una completa definizione di Afro nel panorama artistico internazionale, preferendo spesso associarlo ad altri pittori, specie americani, piuttosto che acquisirne la completa autonomia e autenticità.
2 Fabrizio D’Amico, Afro. Corrispondenze e altri scritti 1949-1960 in Afro. L’itinerario astratto. Opere 1948-1975, catalogo a cura di L. Caramel, Mazzotta, Milano 1989.
3 Lettera di Afro a Andrew Ritchie in The New York Decade, catalogo a cura del MOMA, New York 1955.
4 Carlo Carà, Pittura Metafisica, Valsecchi, Milano 1970.
5 Dattiloscritto conservato presso l’Archivio Afro a Roma, appuntato a mano
“Per il Museum of Modern Art di New York”, Andrew Ritchie, fine 1954, pubblicato nel catalogo The New Decade, 1955.
6 Afro, testo pubblicato in Lionello Venturi, Pittori italiani di oggi, op.cit.