Un quadro di Afro non è una rappresentazione, ma una celebrazione festosa.
«… Vedere. Potremmo affermare che la vita intera si fonda su questo verbo…» sono parole del compianto Pierre Teilhard de Chardin «se non nel suo fine almeno nella sua essenza». «Vedere o perire è la condizione imposta ad ogni cosa dell’universo, a dar motivo del misterioso dono dell’esistere. In misura superiore e anche la condizione umana».
Tutti i veri quadri, certamente, esemplificano questo dato di fatto. Ma la condizione essenziale per la visione è la luce. Ecco perché i quadri di Afro in particolare appaiono celebrazioni del vedere e non semplici documenti di visione. Fuoco, aria e spontaneità ne sono gli elementi. «Ses couleurs», come scrivevano di Fragonard i Goncourt, «ne sont pas des couleurs de peintre mais de touches de poete».
«I suoi effetti di luce», scrisse Bernard Berenson a proposito di un antenato veneto di Afro, sono «resi come se egli avesse nelle mani il potere di illuminare o oscurare i cieli e sottometterli all’umore del proprio animo». Afro, d’altronde, prova raramente la tentazione di oscurare i suoi cieli. Lo spirito fondamentale della sua arte è gioioso. Se un accento inquieto si insinua talvolta nella sua tavolozza, Afro non ne fa scaturire una nota tragica. La sua espressione naturale è talmente piena di amore per la vita da non permettere al minimo accenno di turbamento, per quanto presente e reale, di manifestarsi in quel linguaggio di gioia e gaiezza, nel linguaggio o canto che più gli corrisponde.Il colore è sensuale, caldo mai freddo; fluido, non strutturale; senza spigoli, senza delimitazioni incisive.
Luce e colore, ombra e forma suggeriscono nel loro ordinarsi un effetto di spazio inondato da un’atmosfera tenera e succosa. La freschezza di un mondo mattutino. «Nel silenzio del mattino e il canto degli uccelli».Venezia, città della celebrazione, della festa. Non la Venezia del ventesimo secolo, ma il mezzogiorno o il tramonto veneziano. Nelle tele di Afro ne ritroviamo il riflesso. E il suo legame con la tradizione, con le glorie dei suoi grandi predecessori: questo spirito di festa, questa celebrazione di luce e vita, di vita attraverso la luce.
Ma Afro è un pittore del ventesimo secolo e malgrado tutti i legami con l’eredità veneta il suo idioma pittorico è l’idioma di oggi: il rovescio di quel modo di pensare che fin dagli albori dell’esistenza ha spinto l’uomo a porsi di fronte a sé «come spettacolo a se stesso». Per decine di secoli l’uomo non ha guardato altri che se stesso. Solo oggi comincia ad avere una visione scientifica di sé nel mondo fisico. Nelle arti visive un frammento isolato ormai privo di qualsiasi allusione antropocentrica, una zona che si espande, o una descrizione di forme in uno spazio senza orizzonte ci rivelano il microcosmo dell’universo più ampio su cui stiamo appena ora aprendo gli occhi. L’idioma della pittura oggi è questo, in pieno contrasto con l’espressione del modello umano che ha caratterizzato l’ante dalle caverne fino a ieri. Ed è questo l’idioma che Afro parla da contemporaneo pur continuando a partecipare dell’ eredità che gli viene dal passato veneto.
Tuttavia non abbiamo ancora del tutto imparato ad usare i nostri occhi in questo senso nuovo.«Il bambino», ha scritto Pierre Teilhard de Chardin in Le Phenomene humain, «deve imparare a distinguere l’una dall’altra le immagini che assalgono la sua retina ancora vergine. Perché l’uomo possa scoprire l’uomo (riscoprirlo, cioé, da questo nuovo punto di vista) e coglierne la dimensione, è necessaria tutta una serie di sensi». «Un senso dell’immensità spaziale, nel grandioso e nel minimo, che disarticoli e proietti entro una sfera di radiazione infinita le orbite di oggetti compressi intorno a noi…Un senso della profondità, che sospinga all’indietro, laboriosamente, l’infinita catena degli eventi e le distanze incommensurabili del tempo per impedire che la mente, in una sorta di indolenza, continui a condensarle in una stratificazione sottile del passato; «Un senso del numero… Un senso della proporzione, che ci faccia intendere nel miglior modo possibile la differenza di scala fisica che separa, nel ritmo e nella dimensione, l’atomo dalla nubulosa, l’infinitesimale dall’ immenso.«Un senso della qualità, o del nuovo… «Un senso del movimento, che ci possa far percepire gli sviluppi irresistibili nascosti entro l’estrema lentezza un’agitazione estrema che si cela sotto il velo dell’ immobilità il dato interamente nuovo insinuantesi fin nel cuore della monotona ripetizione dell’ identico; «Un senso, infine, dell’organico, che scopra i legami fisici e l’unità strutturale al di sotto della giustapposizione superficiale di successioni e collettività». «… All’inverso ci basta liberare la nostra visione dalla triplice illusione della piccolezza, della pluralità e dell’immobilità perché l’uomo assuma agevolmente la posizione centrale… la sommità monumentale di un’antropogenesi che in se stessa è il coronamento di una cosmogenesi».
Questo per Teilhard de Chardin significa vedere. L’attuarsi del rapporto fra l’uomo e il cosmo. Alla stessa idea sono arrivati intuitivamente alcuni pittori contemporanei fra cui Afro: illustrare, dare un corpo concreto, metaforico, alle loro espessioni anantropocentriche. Ma oltre all’intuizione di una visuale dell’uomo relativamente nuova e che stiamo imparando a conoscere, nella pittura di Afro attraggono soprattutto le qualità sensuali: colore, ritmo, rapporti di spazio, effetti di luce. Qui Afro attinge profondamente, è naturale, dalla sua eredità. In tutta la sua opera egli resta un artista tradizionale nel senso migliore della parola. Ma alla base della sua arte si rivela, sempre, una sensibilità sua: un istinto infallibile nel trattare i propri mezzi, capace di imprimere nei suoi quadri quelle doti di immediatezza, grazia e felicità per cui oggi Afro si identifica come il puro lirico della pittura contemporanea