Lionello Venturi, Afro Basaldella , in Pittori italiani d’oggi, De Luca EditorI, Roma 1958, pp. 84-96.

Venturi scrive nel momento culminante della carriera di Afro Basaldella . Conoscendolo personalmente, intende verificare se sia possibile riconoscere l’artista, l’uomo, nei suoi quadri, dimostrando una fiducia pressoché totale nel principio espressionista: vale a dire che i quadri sono l’espressione dell’artista. E a volte non è neppure ben chiaro se Venturi stia descrivendo i dipinti o Afro Basaldella  come persona. Questo testo conferma l’ortodossia di contenuto delle astrazioni di Afro Basaldella : memorie, sensazioni momentanee, intuizioni e anche sogni a determinare le scelte cromatiche e le composizioni di forme dell’artista. E ancora più importante, in una lunga citazione attribuita allo stesso Afro Basaldella , egli annuncia l’insoddisfazione dell’artista e la sua intenzione di abbandonare tali fonti di ispirazione e il suo stesso processo creativo, in favore di una pittura fondata sulla totale autonomia della propria espressività.
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Davanti alle pitture di Afro Basaldella  alla Biennale cercavo di ricordare che l’avevo incontrato di persona e tentavo di cavar fuori il suo ritratto dalle forme e dalle linee dell’opera sua. Troppo spesso si è partiti dall’uomo, perché se l’opera è autentica ha per contenuto il modo di essere del suo autore.
Ogni opera di lui che aveva il suo individuale carattere, eppure tutte erano affini fra loro per lo stile, e non solo per la composizione, la forma e il colore. Vi notavo una certa tecnica di 
chi conosce bene il mestiere o fa con precisione e passione 
il proprio lavoro, e una eleganza naturale che è poi la facilità del lavoro, qualche cosa come il superamento della cura realizzatrice. Una sincera sensualità si fa poesia per la finezza del sentimento, e manifesta il bisogno di non rinunziare al decorativo nemmeno nei momenti d’intensità espressiva (che è poi una conseguenza del rapporto in lui tra senso e sentimento). Infine appare una posizione rispetto al mondo la quale è in apparenza timida nell’approccio e decisa e coraggiosa alla fine, così che egli si può permettere di contemplare il suo mondo con la medesima spregiudicatezza con cui vi ha partecipato.
Tutto ciò non è soltanto il carattere dell’opera, ma è anche la natura dell’artista, è il valore della sua arte ed è quel tocco di grazia che si ritrova anche negli atti della sua vita. Si capisce che non ha sempre dipinto come ora, ma lo sviluppo del suo stile è graduale, ha una sua logica interna malgrado le ispirazioni dall’esterno che sono state varie. […]

Quando ha ricevuto una emozione, Afro  Basaldella non la rappresenta, la lascia tornare anche a grande distanza di tempo, e se non torna vuol dire che bisogna dimenticarla. Ma quando torna, ecco assume il tono della leggenda, e può diventare pittura. Egli non fa appunti dal vero ma dalla memoria, e i suoi disegni raccontano l’emozione che dal passato risorge. È stato per otto mesi in America nel 1950, ma non ha dipinto sul posto alcun paesaggio Americano. Solo parecchio tempo dopo ne ha dipinti, quando il ricordo è riaffiorato, l’emozione passata ha riempito la sua anima di nuovo e in modo così diverso da quello diretto. La sua visone ha bisogno della mediazione del tempo, che gli permetta il passaggio dalla prosa alla poesia. Forse per questo l’opera di Afro Basaldella non è fatta di scatti improvvisi, d’intuizioni rapide e brillanti, di prese di possesso orgogliose. Proprio per il suo bisogno di proiettare nel lontano il motivo della sua fantasia, la sua creazione ha un ritmo lento ma con qualcosa di finite in sé e come definite (sic). La sua fiducia nelle possibilità del linguaggio astratto è assoluta. Affronta il pericolo che gli altri non intendano quel suo linguaggio con la rassegnazione di chi nulla può contro il destino. Quel suo linguaggio è necessario a lui perché è il solo che può rivelargli i segreti dell’animo. […]

Negli ultimi anni la fama di Afro Basaldella è diventata più vasta e più forte: malgrado i soliti ciechi, è una fama ormai incrollabile. È stato grande il successo della sua mostra nel 1955 alla Galleria Viviano di New York; nel 1956 il primo premio della Biennale veneziana gli è stato assegnato dalla giuria internazionale purtroppo contro l’avviso della maggioranza dei delegati italiani. È il caso classico del nessun profeta in patria. Tanto peggio per il gusto della patria; tanto maggiore onore ad Afro Basaldella . Ormai risulta chiaro che la perfezione tecnica che tutti riconoscono ai quadri di lui è il risultato di una chiarificazione di ordine mentale, la quale è poi l’espressione teoretica degli impulsi vaghi affioranti dell’inconscio. Come ha precisato Maurizio Calvesi, Afro Basaldella non è un surrealista ma adopera gli elementi surrealisti per superarli in una sintesi rigorosa e della sua perfezione formale. […]
Tuttavia una nuova coscienza è maturata in Afro Basaldella che oggi (1957) dice: “Negli ultimi mesi ho lavorato motto (sic) lentamente, ma in modo che mi sembra sia stato utile a precisare le mie idee sulla pittura.
Da tempo provavo un certo disagio di fronte al mio lavoro: 
ero estraneo al quadro che realizzavo come se non rispondesse a uno svolgimento, ad una necessità interiore che diveniva sempre più urgente e precisa. La mia pittura è sempre stata soggettiva, ho sempre cercato uno spazio fatto di memoria e ritrovato per sentimento e intuizione ma certi simboli rappresentativi che mi erano sembrati dar ordine, in un certo senso stabilire un nesso con la realtà, sono diventati recentemente privi di interesse, schermi fra me e il quadro, ostacoli a nuove scoperte. Certi elementi figurativi, anche filtrati al massimo o ridotti ad abbreviazioni ideografiche, di cui prima avevo sempre creduto di aver bisogno, ora mi apparivano detriti malinconici, familiari come cifre, ma 
non veri. Sentivo il mio lavoro lontano da me perché non mi bastava rappresentare una realtà di fantasia, di sogno o di memoria esistente oltre il quadro e di cui il quadro era specchio 
o tramite, ma volevo che quella realtà si identificasse con la pittura e la pittura diventasse la realtà stessa del sentimento non la sua rappresentazione.
Man mano ho accettato che l’immagine pittorica si realizzasse in un suo modo più imprevisto: nel fatto che una forma si dilati in maniera inquietante, che un colore si accenda “fuori misura”, che la materia nasca dai suoi stessi strati di calcolo e di abbandono. Della memoria resta l’indistinzione, un’onda lenta che trascina con sé tutto il sapore di una stagione, ma non più le sue conformazioni, nemmeno più l’ombra dell’ombra ma solo l’infinito “negativo” di quelle forme ricordate, piuttosto che il limitato sebbene indefinito “Positivo”.
La pittura diviene il “suo” movente, vita del sentimento, volontà di intelligenza, individualità morale e fantastica. Il quadro non allude ma pone la sua esistenza, segreto e incancellabile come ogni cosa sognata e rimpianta.
Oggi non posso pensare all’artista – e non l’ho mai pensato – come a un giocoliere, a un mago che fa il miracolo, ma piuttosto lo vedo simile a una pianta che cresce e si sviluppa spontaneamente nel suo elemento naturale, fondendo alla luce del “tutto” il metro della “sua” esistenza.” […]

Nel settembre 1958 ho potuto vedere sul posto la decorazione dipinta da Afro Basaldella per il nuovo palazzo dell’Unesco a Parigi.
Una poesia della sfumatura, una creazione di colore in potenza più che in atto, un’opera piena di riserbo, di gentilezza, di civiltà.
Una distensione, una calma di chi lavora ormai lentamente per giungere alla sua perfezione, una coscienza viva del proprio modo di lavorare, che si aggiunge alla facilità naturale ch’è uno dei suoi doni più preziosi, ecco la maturità artistica di Afro Basaldella nel suo splendore.

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